Non è facile “leggere” un'opera di Max Ernst, ora a Palazzo Reale. Noi ci proviamo con 5 quadri che abbiamo scelto per voi
Possiamo cominciare con 5 quadri, i nostri preferiti Benvenuti nel magico mondo di Max Ernst, che è stato pittore, scultore, poeta e teorico dell’arte. Max Ernst che molto ha vissuto, tra il 1819 e il 1976, e molto ha amato: dalla Germania alla Francia e poi via in America e poi di nuovo in Europa, sempre diverso ma in fondo sempre uguale a sé stesso, alchimista puro e raffinato, essere umano curioso di ogni cosa, sperimentatore quasi rinascimentale. Filosofo, più che artista.
Se lo conoscete poco o non lo conoscete affatto , Milano ospita da oggi fino al 26 febbraio la sua prima retrospettiva italiana (in tanti si sono già prenotati): basta recarsi al piano nobile di Palazzo Reale e prendersi un paio d’ore, ché la mostra, prodotta dal comune con Electa, in collaborazione con Madeinart, curata da Martina Mazzotta e da Jürgen Pech, raccoglie oltre 400 opere tra dipinti, sculture, disegni, collages, fotografie, gioielli e libri illustrati provenienti da musei, fondazioni e collezioni private, in Italia e all’estero. Tanta, tantissima roba, che sala dopo sala (4 le sezioni, 9 i percorsi tematici: ecco perché serve tempo) ripercorre la creatività di Ernst lungo 85 anni di vita tumultuosa, sempre in fuga da qualsivoglia definizione ed etichetta.
Ernst, surrealista tra i più grandi, nasce vicino a Colonia, anche suo padre era pittore. Mente veloce e arguta, il giovane Max si dedica all’arte, snobbando lo stile paterno, e studia filosofia e psicologia all’università. Parte soldato per il fronte (siamo nella Prima Guerra Mondiale), ma non smette di dipingere. Si avvicina al Dadaismo, si appassiona alla pittura di Giorgio De Chirico e poi, a Parigi, conosce André Breton e tutto l’universo surrealista, collabora con Salvador Dalì e Luis Buñuel, conosce Leonora Carrington (l’artista surrealista che ha ispirato la magica Biennale di Venezia di quest’anno…) e va a vivere con lei ad Avignone, lasciando la prima moglie.
Sono anni fecondi: inventa il frottage, quel tipo di pittura che si realizza per sfregamento della superficie, e nuove tecniche di collage. Negli anni 40 lascia l’Europa su cui soffiano venti pericolosi e si rifugia negli Stati Uniti: in Arizona sperimenta nuove tecniche di pittura e scultura (dettaglio: si sposa altre due volte, la prima nel '41 con la famosissima mecenate Peggy Guggenheim e, dopo soli 5 anni, con l’artista Dorothea Tanning, famosa per le sue creature con gli occhi grandi, che gli resterà accanto fino alla morte). Gli ultimi 25 anni della sua esistenza li passa in Europa, instancabile nella sua produzione.
Difficile riassumere un artista così, capace di passare da minuscoli lavori su legno e disegni su carta, da lucenti sculture a opere tipografiche raffinate.
Nella mostra su Max Ernst a Palazzo Reale potete sbizzarrirvi, ma queste sono 5 opere che non dovete assolutamente perdervi.
Quest’opera-capolavoro (raramente esposta: appartiene a una collezione privata svizzera) compie giusto un secolo. Max Ernst a Parigi mette su tela alcune sue riflessioni su testi di Freud e ci regala un’opera infarcita di sessualità a partire dalla grande mano che esce da una finestra su un muro di mattoni. Tiene in mano una noce, chiara allusione al corpo femminile: la mano e la noce sono trafitti da un arco e da una freccia (e c’è chi vi legge un riferimento all’amore masochista). Sulla sinistra, due uccelli in scatola: ne scorgiamo solo le teste, di cui una ha delle corna legate, una forma di aberrazione. Che cosa significa? Non esiste una risposta univoca, di sicuro siamo davanti a una riflessione sulle nevrosi che accompagnano il piacere.
Qui stiamo sognando con Max Ernst, siamo proprio dentro la sua mente. Dal margine superiore spunta uno strano sole, suddiviso in due metà, una blu e una nera da cui partono raggi o fili che si collegano a corpi celesti. Al centro c’è la terra, anche lei come il sole è un cerchio blu e nero ma viene coperta da una mano mozzata che indossa un guanto e attorno a lei ci sono tre lune, colte in diverse fasi. Sopra, due corpi maschili e femminili sono fusi. Si potrebbe stare ore a decifrare i mille riferimenti psicoanalitici di questo dipinto che richiama all’eterno ciclo della vita e della morte, all’alternanza quotidiana di luci e di ombre.
Forse una delle opere più classiche di Ernst, ispirata al grande tema della Pietà. Questa, tuttavia, appare come una versione “al maschile”: il padre, inginocchiato e color sabbia, porta la bombetta e tiene tra le braccia un giovane che sembra quasi una statua di gesso. Sullo sfondo, un uomo su una scala ha la testa fasciata e l’aria triste. Bisogna concentrarsi sugli sguardi: il padre guarda la sua creatura, ma ne coglie solo l’apparenza mentre la figura sullo sfondo, con gli occhi chiusi, ha capito che conviene guardare dentro di sé. Per molti si tratta di una riflessione sull’arte, tanto più vera quanto più è intima e ispirata alle visioni inconsce.
In questo dipinto, una minacciosa figura composta di frammenti di animali fantastici e vestita di brandelli di stracci colorati avanza verso di noi, pare voler uscire dal quadro. Il volto sembra quello di un pipistrello o di una strega: quasi ci sembra di sentire la sua risata malefica. Qui Ernst, un po’ come Picasso con Guernica, ci mostra gli orrori del mondo e il mostruoso bestiario di cui siamo capaci. Non a caso il dipinto, scelto come immagine-guida della mostra di Milano, è stato fatto nel 1937.
Chiudiamo in allegria, con uno dei dipinti che Max Ernst amava di più e davanti al quale spesso si faceva fotografare (l’opera è stata prestata dal Centre Pompidou di Parigi). Realizzato a meta degli anni 60, a Seillans, in Provenza, dove l’artista si era trasferito con la moglie Dorothea Tanning, mostra l’energia vitale delle feste di paese: ci si può divertire a contare il numero dei volti e dei corpi, che paiono davvero muoversi a ritmo di musica. È un inno alla vita, nonostante tutto.
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